Quando il MSI provò a far dichiarare incostituzionale il trattato di Maastricht

Questo articolo è la trascrizione integrale una relazione di minoranza presentata da Cesare Pozzo il 15 settembre 1992 alla terza commissione permanente (affari esteri).

Il senatore faceva parte del Movimento Sociale Italiano (MSI) che, assieme a Rifondazione Comunista, espressero forti critiche al Trattato di Maastricht.

Oggi quelle critiche appaiono profetiche, vediamo dunque le ragioni del NO a Maastricht del Movimento Sociale Italiano.

Già allora si sapeva che la ratifica, non solo era incostituzionale, ma addirittura che costituiva reato e, in questa relazione, si invocavano i delitti contro la personalità dello Stato.

Fatta questa breve premessa, ecco la trascrizione integrale della relazione (fonte originale), un po’ lunga ma vale la pena leggerla tutta.


ONOREVOLI SENATORI. – L’argomento all’ordine del giorno dell’Assemblea del Senato è un tema di importanza straordinaria per il nostro futuro e per quello del Continente europeo. Si tratta infatti nientemeno che di stabilire quale sarà la con figurazione della Comunità europea, che peraltro non è da inventare, ma già esiste e nella quale il nostro Paese è concretamente inserito. Argomento così importante da richiedere ben altra discussione di quella prevista in quest’Aula per procedere alla ratifica del Trattato di Maastricht.

Prima di entrare nel merito del Trattato mi preme sottolineare questo punto che riguarda il metodo e il modo stesso della discussione. Immagino che in quest’Aula vi siano voci contrarie e voci favorevoli al Trattato di Maastricht. Desidero fare un appello preliminare non ai contrari, ma a coloro che sono favorevoli alla ratifica per chiedere loro se appare serio procedere in maniera cosi precipitosa comprimendo in due giorni un dibattito dal quale il nostro Paese è ancora tagliato fuori. Vogliamo fare l’Europa, ma anche in questo ci distinguiamo da tutti gli altri Paesi europei, Francia in prima linea, che hanno ben altrimenti impostato il problema. Bisogna dare atto al presidente Mitterand di avere avuto il coraggio di non eludere il grande dibattito politico e culturale sull’Unione europea, ma di aver voluto investire tutto il popolo francese di questo problema. Lunedì, 21 settembre, riceveremo il responso delle urne.

FONTE: La Stampa – 21 settembre 1992

Intanto si può dire che tutto il popolo francese ha potuto essere informato del problema e discutere sull’argomento. In ciò dobbiamo riconoscere una manifestazione di democrazia, intendendo questo termine nel suo significato più genuino, che è quello di regime politico fondato sulla autentica volontà del popolo. Ben altrimenti ci sembra che vadano le cose in Italia. La decisione di eludere il dibattito, rifiutando un referendum, anche solo consultivo, come quello che il nostro partito aveva richiesto, ci sembra una mancanza di rispetto verso l’opinione del nostro Paese, tanto più grave in quanto attraversiamo un periodo di grave crisi di credibilità delle nostre istituzioni. La nostra classe politica rischia di perdere un’occasione d’oro per collegarsi con l’opinione pubblica, mostrando invece di preferire ancora una volta la vecchia strada partitocratica, la strada cioè delle decisioni concernenti il popolo italiano prese sulla sua pelle. Rivolgetevi all’uomo della strada e chiedete che cosa è il Trattato di Maastricht. Vi sfido a trovare chi sappia rispondere. La responsabilità di questa disinformazione è nostra e con questo dibattito, che vorrebbe essere «lampo», avremmo contribuito a tale carenza di informazione su un tema di così grande portata.

Desidero conoscere esplicitamente i motivi di questa urgenza, le ragioni della necessità di approvare improrogabilmente il Trattato entro la fine di questa settimana. Mi auguro di non sentirmi rispondere, come si sente vociferare, che la necessità è legata ad una superiore ragione di Stato che imporrebbe ad ogni costo la ratifica prima del referendum francese per condizionarne i risultati, facilitando la vittoria del «». Si tratterebbe infatti di una inammissibile, dichiarata, interferenza nella vita politica di una Nazione a noi tanto vicina per cultura e per storia. I francesi non hanno bisogno della nostra ratifica, ma solo del rispettoso silenzio dell’Europa, come accade in prossimità di ogni elezione politica. Al contrario, mi sembra non solo opportuno ma doveroso un rinvio proprio per acquisire dai risultati del voto francese, espresso in tutta libertà e senza condizionamenti esterni, elementi che contribuiscano a una nostra decisione più meditata e approfondita.

Mi rivolgo dunque, oltre che al Governo, agli uomini seri e responsabili di tutti i partiti per chiedere un rinvio della discussione alla prossima settimana. La credibilità della nostra classe politica non potrà che trarre profitto da questa prova di serietà, sia nei riguardi delle altre Nazioni europee che della opinione pubblica italiana.

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Come è noto il Governo ha presentato (il 29 aprile 1992) al Senato della Repubblica il disegno di legge n. 153 relativo alla ratifica del Trattato sull’Unione europea, cosiddetto «Trattato di Maastricht». Sin da quel momento gli interrogativi, talvolta inquietanti, circa l’opportunità dell’adesione italiana alla costituzione dell’Unione europea, hanno caratterizzato il dibattito che sino ad oggi si è svolto e si va svolgendo, soprattutto al di fuori del Parlamento. Nel frattempo (oltre alla pausa estiva) il nostro Paese ha assistito, e subito, gli esiti dell’errata politica economica, sino ad arrivare alla recente svalutazione della lira. In altre parole non si può negare che la situazione economica e sociale dell’Italia sia fortemente cambiata da quando i rappresentanti europei si riunirono a Maastricht per redigere il testo che è ora sottoposto all’Assemblea del Senato.

Tant’è che persino nell’esame, svoltosi nella Commissione affari esteri, lo stesso relatore senatore Orsini ed il ministro degli esteri Colombo non hanno potuto nascondere perplessità e dubbi in vista del dibattito in Aula sul Trattato di Maastricht.

Peraltro la scelta politica di accelerare i lavori della Commissione e successivamente dell’Aula del Senato, nell’intento di offrire a Mitterand il voto favorevole di almeno un ramo del Parlamento italiano, è – come si è già detto – quantomeno sconveniente per non dire irregolare: sfiora le dimensioni di una vera e propria ingerenza – reciproca – nei problemi di politica interna anche se fra Stati membri di una Comunità. Ciò significa in altre parole che accelerare il dibattito parlamentare italiano in funzione del referendum francese è tanto illegittimo quanto consentire che la Francia sfrutti demagogicamente, per il proprio imminente referendum, l’eventuale conferma italiana a Maastricht. Non dobbiamo dimenticare che la scadenza prevista dal Trattato è fissata per il 31 dicembre e che al popolo italiano non è data la possibilità di esprimersi attraverso il referendum.

Ma per tornare più dettagliatamente al tema dell’Unione europea ed all’opportunità di una adesione, dobbiamo sottolineare ancora una volta la disinformazione dei mass-media e delle radiotelevisioni pubbliche e private intorno al Trattato di Maastricht, e la questione del voto negato a 5 milioni di italiani all’estero, mentre a milioni di immigrati extracomunitari si lascia intendere di poter diventare in tempi rapidi cittadini dell’Europa di Maastricht.

Quello che preoccupa è che il Trattato all’esame possa allinearsi alla logica aberrante di Yalta e di Osimo, condannando la Nazione alla sua perdita di identità nazionale.

L’Italia dovrebbe confluire in un’entità più ampia, sovranazionale, e non è chiaro se ciò avvenga nel rispetto del dettato costituzionale.

Vi sono preoccupazioni e pericoli di ordine economico, finanziario, politico e sociale che trovano autorevole riscontro negli ambienti internazionali al massimo livello di competenza, in risposta alle tesi ottimistiche e superficiali dei governanti italiani. Costringiamo l’Italia ad esistere con altre Nazioni che in nome dell’integrazione nascondono comunque sempre le proprie rivalità nazionali. Si impongono severe condizioni di convivenza specie per un bilancio pubblico in equilibrio. Il nostro punto di riferimento più alto deve restare l’unità e l’indipendenza dell’Italia. Ci chiediamo se aderire a Maastricht non rappresenti piuttosto una velleità di un Paese senza unità, senza indipendenza, senza potere. In altre parole è sempre la Nazione a fare le spese. Siamo d’accordo per l’Unione europea ma purché sia capace di innovare dal profondo creando una nuova cultura nazionale, un armonizzato progredire delle legislazioni e dei modi di vita, una nuova Nazione Europa valida interlocutrice delle altre potenze mondiali.

È stata giustamente riconosciuta ed esaltata da tutte le parti politiche la relazione svolta in Commissione dal senatore Orsini, analitica, ponderosa, molto impegnativa dal punto di vista tecnico.

Mentre si ascoltava con interesse tale relazione in apertura del dibattito nella Commissione affari esteri, veniva fatto di pensare agli avvenimenti del mese di agosto, durante il quale il relatore aveva presumibilmente assemblato le tante componenti del suo lavoro, ineccepibile dal punto di vista formale e tuttavia lontano dagli eventi maturati in tale mese:

1) il «rapporto Moody’s» sull’affidabilità della nostra economia, bocciata e collocata a livello della Nuova Zelanda e di Singapore nella posizione AA3, e ciò alla vigilia di Ferragosto;

2) lo studio semestrale del Fondo monetario internazionale, secondo il quale l’effetto di Maastricht sulla economia italiana – prima della prevista ripresa – sarà molto più prolungato e pesante che per gli altri paesi della CEE, con un recupero non prevedibile prima del Duemila. Il documento infatti prevede che l’effetto netto del programma di Maastricht, nella sua fase iniziale, comporta la riduzione della produzione economica totale della CEE – fra il 1993 e il 1996 – dello 0,4 per cento. In questo scenario l’Italia andrebbe incontro alla perdita, in termini di prodotto interno lordo, dell’1,1 per cento rispetto ad una situazione fuori da Maastricht. L’Italia – secondo il Fondo monetario internazionale – dovrà aspettare fino al Duemila prima di ricominciare a risalire su livelli in linea con le proiezioni di crescita europee, dunque fino al Duemila saremo gli ultimi in Europa;

FONTE: Archivio Repubblica – 29 agosto 1992

3) il World Economic Forum che il 28 agosto ci ha classificati al fondo dei paesi industrializzati: siamo cioè i più malati e inaffidabili dei 22 paesi dell’OCSE. Ultimi in classifica, molto per mafia, molto per pigrizia e per «personalità e qualità e disponibilità delle risorse umane». Oggi dobbiamo registrare anche, come già detto, la svalutazione della nostra moneta. Si può sempre alla fine confidare nello «stellone», ma tuttavia ci si sente provocati nel nostro orgoglio di uomini e di cittadini italiani; quello che resta inesorabilmente è il giudizio del più autorevole ente di operatori economici: al 18° posto in classifica generale, al 22° per qualità del Governo, al 22° per capacità di popolo!

Inoltre, sul finire di agosto il premier britannico ha rifiutato di partecipare ad un dibattito su Maastricht con Mitterand a Parigi sottolineando così un forte distacco e una polemica dichiarata contro i banchieri tedeschi, accusati delle sciagure in casa europea.

In Inghilterra, che vede la recessione più lunga del dopoguerra, le richieste di una soluzione ai problemi britannici sono salite a toni roventi, tanto che Robin Monro-Davies, superanalista inglese, presidente della agenzia di rating britannica, sostiene che in Europa la situazione odierna è «balorda».

L’Italia è il primo paese europeo ad essere colpito da questa politica: voler avvicinarsi, voler convergere al modello tedesco ha poco senso in generale e ne ha ancor meno in Italia. La crisi italiana rende tutto più costoso e il tentativo di avvicinarsi ai livelli di inflazione tedeschi è di per sé spericolato, e questo è il momento peggiore per farlo.

Monro-Davies precisa e aggiusta il tiro: l’Italia non può permettersi di non tagliare il deficit pubblico, di non privatizzare massicciamente, di non allentare il patronage dei partiti sulla economia e di non avere comportamenti coerenti sui mercati finanziari.

In sostanza Monro-Davies vede soltanto guai per l’Italia e ci consiglia di non inseguire, per il nostro bene, Maastricht. È sempre un inglese, ovviamente, ma riconosciuto da tutto il mondo per l’appunto come superanalista.

La posizione del Gruppo del MSI-DN è improntata ad un grande senso di responsabilità nazionale. Non si tratta di schierarsi genericamente pro o contro l’Europa, ma di affrontare il vero problema di fondo: a quale Europa ci richiamiamo? Qual è l’Europa prevista da Maastricht?

I trattati politici non possono ridursi a mere formule tecniche, ma riflettono modelli politici, visioni del mondo ed aspirazioni ideali. Quali, in questo caso?

Il primo equivoco di fondo è quello di ritenere che si tratti di una unione economica destinata ad assicurare maggiori vantaggi e benefici ai suoi membri. Non a caso il Trattato parla di «Comunità europea», si sopprime l’aggettivo «economica» (dalla denominazione della CEE) proprio ad indicare che è un’unione meramente politica. E nel processo di unificazione si rischia di prescindere dagli Stati nazionali che ne costituiscono l’ossatura. Ci chiediamo se in tal modo non si inneschi invece un processo di disgregazione, una liquidazione degli Stati condotta in nome dell’Europa stessa.

I mercati più deboli saranno invasi da capitali e servizi stranieri ben più competitivi, sopravviveranno solo le imprese più grandi a dimensione multinazionale; le piccole potranno sopravvivere o potranno solamente trovare l’alternativa di accorparsi a quelle grandi per poter continuare ad operare?

Ancora, il problema della cittadinanza, nazionale od europea, non può non tener conto del fallimento del socialcomunismo ad Est e della sempre maggiore immigrazione derivante dal fallimento della decolonizzazione al Sud. Così come non si può negare che quello della cittadinanza è sempre stato ritenuto uno dei punti cardine nell’espressione della sovranità nazionale. Noi, attraverso una lettura forzata dell’articolo 11 della Costituzione, andiamo a modificare la legislazione nazionale sulla cittadinanza.

Non a caso quindi, dopo gli accordi presi a livello governativo, in vari Stati d’Europa, da parte delle cittadinanze, è stato sollevato un grosso punto interrogativo estrinsecato talvolta dal voto referendario: ciò che noi chiedevamo per i cittadini italiani. Perché dobbiamo far parte di un direttorio di potenze nel quale non contiamo nulla e, oltretutto, a carissimo prezzo? Forse anche contravvenendo al nostro dettato costituzionale?

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Incostituzionalità del disegno di legge di ratifica del Trattato di Maastricht per violazione degli articoli 48, 51 e 138 della Costituzione

Desidero richiamare ancora la vostra attenzione su un problema, sopra appena accennato, che non è comunque possibile eludere: quello giuridico-costituzionale. È inutile fingere di ignorarlo. Non possiamo approvare il Trattato di Maastricht prima di una revisione della nostra Costituzione, se non vogliamo cadere nella violazione del codice penale e prestarci ad un conseguente intervento della Corte costituzionale che vanificherebbe le decisioni arbitrariamente prese in questa sede, coprendoci di ridicolo di fronte a tutta l’Europa.

Non mi risulta che esista risposta ai problemi giuridici e costituzionali sollevati da autorevoli giuristi e che qui ritengo doveroso riassumere.

Com’è ovvio, ogni attività politica in Italia deve svolgersi nel rispetto del testo della Costituzione. Tale obbligo nasce dall’articolo 1, secondo comma, della Costituzione: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Così anche il primo comma dell’articolo 54: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi». Se dunque un trattato internazionale è incompatibile con le norme attualmente presenti nel testo della Costituzione della Repubblica italiana, esso non può essere ratificato a meno di non modificare prima il testo costituzionale, seguendo la procedura richiesta dall’articolo 138 della Costituzione.

Occorre peraltro ricordare che la maggioranza dei giuristi è concorde nel definire compatibile con la Costituzione un trattato il quale, anche se in contrasto con alcuni articoli della stessa, rispetti i requisiti fissati dall’articolo 11 della Costituzione.

Detto articolo recita infatti: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Secondo la maggioranza dei giuristi questo articolo autorizza a priori un certo tipo di modifiche del testo costituzionale in seguito ad accordi internazionali, ponendo però due requisiti tassativi: che le limitazioni di sovranità siano finalizzate «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», e che tali limitazioni avvengano «in condizioni di parità con gli altri Stati».

Ora, il trattato che istituisce l’Unione europea prevede effettivamente gravi limitazioni, se non la soppressione, della sovranità italiana sia in campo economico che politico: ma tali limitazioni, o soppressione, non avvengono «in condizioni di parità con gli altri Stati». Ciò a causa dei cosiddetti «protocolli», ossia clausole apposte al trattato che prevedono eccezioni al rispetto del medesimo per alcuni degli Stati firmatari. Ad esempio l’Italia, come altri Stati dell’Unione, ha l’obbligo di accettare dure limitazioni, se non la soppressione, della sua sovranità monetaria, con le necessarie e dolorose conseguenze preannunciate nel discorso programmatico del Presidente del Consiglio; la Gran Bretagna invece, in virtù del protocollo n. 11, intitolato: «Protocollo su talune disposizioni relative al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord» può decidere di mantenere la propria sovranità monetaria (punto 4) e di non passare alla cosiddetta «terza fase» dell’unificazione economica (secondo comma del punto 1). Anche altri protocolli pongono condizioni di disparità fra alcuni Stati firmatari del Trattato e l’Italia, la quale, per inciso, non si giova invece di aluna eccezione. Il Trattato di Maastricht, così come è stato concepito e firmato esclude quindi le «condizioni di parità» richieste tassativamente dall’articolo 11 della Costituzione, e può essere perciò ratificato solo dopo che il Parlamento abbia deciso di modificare le norme contrastanti del testo costituzionale mediante la procedura di revisione, quale è prevista dall’articolo 138 della Costituzione e garantita dall’articolo 283 del codice penale che recita: «Chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato, o la forma del Governo, con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni».

Infine lo scrupoloso rispetto delle procedure costituzionali ci è imposto dallo stesso trattato di Maastricht, articolo R, che recita al paragrafo 1: «Il presente trattato sarà ratificato dalle alte parti contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali».

FONTE: Trattato di Maastricht – disposizioni finali (pag 63)

Come non definire contraddittorio l’atteggiamento di chi vuole unire nello stesso gesto la ratifica del Trattato e la sua violazione?

Dimostrata la impossibilità di fare ricorso, per la ratifica del Trattato di Maastricht, all’articolo 11 della Costituzione, e quindi la conseguente necessità della preventiva modifica degli articoli della Costituzione in contrasto con le norme stabilite nel Trattato, passiamo ad esaminare in concreto una delle norme del Trattato in contrasto con la nostra Costituzione, quella che istituisce la cosiddetta cittadinanza europea.

La cittadinanza europea è prevista dal Trattato di Maastricht che introduce un articolo 8, nel quale si afferma testualmente:

FONTE: Trattato di Maastricht (pag 7)

«1. È istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro.

2. I cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dal presente trattato».

Tra i diritti dei cosiddetti «cittadini dell’Unione», i più importanti sono quelli sanciti dall’articolo 8-B che, nei paragrafi 2 e 3, attribuisce ad ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino «il diritto di voto e di eleggibilità», sia alle elezioni comunali che a quelle del Parlamento europeo, «alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato».

Poiché la logica del processo di unificazione europea tende ad esautorare il ruolo dei Parlamenti nazionali, a vantaggio della rappresentanza politica locale e sovranazionale, è evidente che questo articolo mira ad attribuire ad ogni «cittadino europeo», purchè residente in qualsiasi Stato membro dell’Unione, quei diritti politici che, in regime democratico, costituiscono l’essenza della «sovranità popolare». In particolare, attribuisce al «cittadino europeo» il diritto all’elettorato attivo e passivo, cosicchè esso viene ad essere parificato in tutto e per tutto al cittadino italiano. In tale modo si viene a violare l’articolo 48 della Costituzione che statuisce: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età» e l’articolo 51 della Costituzione che recita: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive» e aggiunge, al secondo comma: «La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica», con ciò escludendo che tali diritti possano essere estesi ai non italiani. È evidente, quindi, che tale trattato modifica profondamente la Costituzione italiana, da un lato trasferendo la sovranità a soggetti esterni al suo territorio e dall’altro comprimendo i diritti politici dei cittadini italiani con l’estensione di tali diritti a persone estranee al nostro ordinamento.

Il concetto di cittadinanza presuppone, e ha sempre presupposto, quello di sovranità. Dalle antiche polis della Grecia a Roma, città-Stato per eccellenza, simbolo e modello della sovranità imperiale in tutto il Medioevo, fino alle moderne democrazie, la cittadinanza può essere definita come il vincolo giuridico-politico che congiunge l’individuo allo Stato.

Ora, i citati articoli 8 e 8-B, che istituiscono la «cittadinanza europea», mentre parlano ripetutamente di «Stati» membri dell’Unione, non fanno mai riferimento ad uno «Stato» europeo. Nel Trattato, del resto, l’Unione non è presentata come uno Stato ma come una semplice organizzazione internazionale.

Una delle principali differenze tra uno Stato ed un ente internazionale, come osserva un autorevole giurista, è che «la condizione giuridica dello Stato nei confronti degli altri Stati si collega direttamente alla qualità sovrana dei suoi poteri. (…) Invece un’organizzazione internazionale non ha fra i suoi caratteri distintivi il possesso di poteri sovrani». (R. Monaco, Corso di organizzazione internazionale. Principi generali, Torino 1979, pp. 85-86).

Il concetto di cittadinanza è infatti, come abbiamo detto, inscindibile da quello di sovranità. Esistono innumerevoli entità organizzate nel mondo, ma non si può essere «cittadini» che di un organismo il quale abbia attribuzioni sovrane. Se quindi ha senso parlare di «cittadino di uno Stato membro dell’Unione», non ha senso parlare di «cittadino dell’Unione», perché si può essere cittadini solo in quanto sudditi di un ente dotato di sovranità, e l’Unione europea non è uno Stato, né un ente sovrano.

Il Trattato di Maastricht dunque per un verso mantiene gli Stati nazionali e le rispettive cittadinanze, per altro verso stabilisce una cittadinanza europea in aperta contraddizione con essi. Istituendo tale cittadinanza, il Trattato espropria gli Stati nazionali della loro sovranità politica, senza peraltro attribuire questa sovranità ad un nuovo Stato od ente sovrano superiore.

Si inganna chi paventa il pericolo di un nuovo Stato o Superstato europeo forte e centralizzato. L’Unione europea prevista a Maastricht dissolve gli Stati europei senza crearne uno nuovo. La sua meta è il non-Stato: nazioni senza Stato in un’Europa senza Stato. Il continente europeo rischierebbe di essere trasformato in una sorta di confusa cooperativa, anticamera di un’ancora più confusa Repubblica universale secondo le aspirazioni degli utopisti di tutti i secoli.

Quali possono essere le conseguenze pratiche dell’articolo 8, paragrafo 1, secondo comma, del Trattato, secondo cui «è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»?

La «Dichiarazione sulla cittadinanza di uno Stato membro» annessa all’Atto finale del Trattato di Maastricht afferma: «La Conferenza dichiara che, ogniqualvolta nel trattato che istituisce la Comunità europea si fa riferimento a cittadini degli Stati membri, la questione se una persona abbia la nazionalità di questo o quello Stato membro sarà definita soltanto in riferimento al diritto nazionale dello Stato membro interessato».

Ciò significa che ogni Stato membro può attribuire la cittadinanza a qualsiasi individuo e da quel momento costui può votare e candidarsi alle elezioni comunali ed europee di ogni altro Stato dell’Unione.

Una crescente pressione migratoria sta investendo l’Europa dal Sud e dall’Est. Molti Stati europei hanno avuto colonie sia nel Maghreb islamico che nell’Africa nera, come in Medio ed Estremo Oriente. Altri mantengono relazioni privilegiate con Paesi dell’ex Cortina di ferro. Come escludere la possibilità che un qualsiasi Stato europeo decida di concedere istantaneamente la cittadinanza agli stranieri e che gli altri Stati membri vedano milioni di immigrati – non più extracomunitari, ma cittadini europei a tutti gli effetti – concentrarsi nelle più importanti città del nostro Continente, stravolgendone, col diritto di voto, la vita politica, culturale e religiosa?

Non sarebbe questo un attentato mortale alla sovranità dei singoli popoli europei, in contraddizione con quanto stabilisce l’articolo F, paragrafo 1, del Trattato secondo cui «L’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, i cui sistemi di governo si fondano sui principi democratici»?

Questo scenario futuro è solo possibile; ciò che però è certo è che il Trattato lascerebbe i singoli popoli sovrani giuridicamente e politicamente indifesi di fronte al verificarsi di tali eventi.

In conclusione:

1) il Trattato contiene delle norme in contrasto con gli articoli 48, 51 e 138 della nostra Costituzione. Lo riconosce lo stesso Governo italiano, il quale, nella relazione al disegno di legge di ratifica si dichiara consapevole «delle questioni di rilevanza costituzionale che la ratifica di questo Trattato può comportare». Per superare queste questioni non si può fare ricorso all’articolo 11 della Costituzione, per i motivi sopra esposti e perché, come riconosce lo stesso documento governativo (L’esecuzione dei Trattati comunitari nell’ordinamento italiano: rassegna della dottrina internazionalistica, pag. 4) «in nessun modo si può modificare la Costituzione, attraverso l’esecuzione di Trattati internazionali che attuano la norma di cui all’articolo 11 della Costituzione, dovendosi ricorrere agli ordinari procedimenti di revisione costituzionale»;

2) occorre, quindi, preventivamente procedere alla revisione costituzionale secondo le procedure previste dall’articolo 138 della Costituzione. D’altra parte, ciò è assolutamente logico. Infatti, in caso contrario, si verrebbe a creare una ben strana situazione giuridica in cui verrebbero pericolosamente a coesistere diverse norme in contrasto tra loro in materie così importanti e delicate. La recezione, nel nostro ordinamento, di norme internazionali in contrasto con quelle previste dalla Costituzione comporterebbe, oltre che la commissione di un reato, l’assurda conseguenza di essere costretti a modificare successivamente delle norme costituzionali per adeguarle ad un trattato già ratificato, cosicché, ove tale modifica non fosse approvata, ovvero, se pur approvata, venisse abrogata da un successivo referendum (nel caso in cui l’approvazione sia avvenuta con una maggioranza inferiore ai due terzi), si verrebbe a creare (giacché nel frattempo le norme stabilite nel Trattato sarebbero state recepite nel nostro ordinamento e avrebbero acquistato vigore di legge) una incredibile situazione di caos giuridico-istituzionale. Ciò proprio nel momento in cui da tutte le parti si riconosce l’esigenza di una maggiore legalità e chiarezza giuridica.

Percorrere una strada diversa sarebbe pertanto costituzionalmente scorretto e creerebbe gravi problemi di ordine costituzionale che si verrebbero ad aggiungere ai numerosi altri problemi di ordine economico e politico che angustiano la nostra Nazione.

Si ritiene quindi che il disegno di legge di ratifica di cui si tratta sia viziato di incostituzionalità, e il Gruppo del MSI-DN propone pertanto eccezione di incostituzionalità nei suoi confronti per violazione degli articoli 48, 51 e 138 della Costituzione.

Pozzo, relatore di minoranza