Moneta unica, la profezia del Prof Nuti (L’Unità 20 ottobre 1978)

Questo articolo è la trascrizione integrale di un profetico articolo pubblicato da “L’Unità” il giorno venerdì 20 ottobre 1978, il documento originale è consultabile nell’archivio.

Buona lettura

IL RILANCIO DEI PROGETTI DI UNIONE MONETARIA, L’EUROPA ALL’OMBRA DI UNA BANCONOTA

Mentre si discutono i particolari tecnici della creazione di una moneta comune, restano aperte le perplessità dei paesi più « deboli » La proposta tedesca e quella francese – Le ripercussioni sulle economie di Gran Bretagna e Italia – A colloquio con il professor Nuti.

Dal nostro corrispondente

LONDRA — Il progetto di unione monetaria europea sta avanzando a ritmo accelerato verso la sua fase esecutiva. Molto rimane però da discutere, non solo in sede tecnica. Forti sono le perplessità, presso i paesi «  più deboli », circa i costi dell’operazione in termini di crescita e di occupazione. Sottolineando l’esigenza del « trasferimento delle risorse » dalle aree economiche più forti, la Gran Bretagna si è fatta interprete delle istanze di sviluppo e di riequilibrio – all’interno della Comunità.

Callaghan si è incontrato col Cancelliere tedesco Schmidt mentre continuano le differenze d’opinione e le resistenze in seno al governo inglese e nel movimento laburista.

Sulla questione abbiamo intervistato il professor Mario Nuti, docente di economia al « King’s College » di Cambridge, al quale abbiamo chiesto quali siano, secondo lui, le ragioni che presiedono alla creazione della cosiddetta moneta europea.

« L’unione monetaria è, necessariamente, l’ultimo stadio dell’integrazione economica e, sia pure in termini molto vaghi, doveva essere già nella mente dei promotori della Comunità economica europea.

Richiama l’idea di una valuta nuova comune, fisicamente di una banconota nuova, con una denominazione diversa da quelle nazionali. In realtà non richiede altro che tassi di cambio fissi fra le valute dei paesi membri, liberi però di fluttuare all’unisono con le valute del resto del mondo.

Ciò a sua volta implica il coordinamento delle politiche economiche (monetarie, fiscali, valutarie) degli altri paesi, con o senza la creazione di una banca centrale europea. Ogni passo nella direzione di cambi fissi, o in qualche modo vincolati, all’interno di un gruppo di paesi rispetto all’esterno, avvicina l’unione monetaria.

Queste erano infatti le modalità del rapporto Werner dell’ottobre 1970, con un piano in due stadi, dalla restrizione dei margini di fluttuazione dei cambi alla convergenza delle politiche economiche e monetarie ».

— QUAL È STATO IL PERCORSO CONCRETO DI QUESTO PROGETTO?

« Sulla scia della crisi valutaria del 1971, i paesi della Comunità, nel marzo ’72. Dettero vita all’esperimento valutario noto come “il serpente nel tunnel“, in cui le variazioni dei tassi di cambio possono letteralmente serpeggiare entro i limiti del 2,25% rispetto ad un livello centrale.

L’esperienza del “serpente” è caratterizzata dal progressivo abbandono di un gran numero di soci, precipitosamente usciti dal sistema sotto la spinta della speculazione o semplicemente per la inadeguatezza dei limiti valutari, salvo rientrarvi una volta ristabilito l’equilibrio.

L’Italia uscì dal “serpente” nella crisi del febbraio 1973. Oggi, dei paesi originari, sono rimasti membri soltanto la Germania e il Benelux a cui si sono aggiunti la Danimarca e la Norvegia ».

— PERCHÉ QUESTO IMPROVVISO RILANCIO E FRETTA DI REALIZZAZIONE?

« Vari motivi: gli effetti sfavorevoli dell’incertezza circa l’andamento dei cambi sul commercio e gli investimenti; il desiderio di sganciare i paesi europei dai contraccolpi delle fluttuazioni del dollaro.

Allo stesso tempo, l’opportunità fornita dalla stessa debolezza del dollaro; la volontà di stroncare, con una unione europea più stretta, tentazioni protezionistiche di paesi membri.

Infine — e questo è forse il motivo più importante — la legittimazione, in nome di impegni europei, di politiche nazionali di stabilizzazione il cui costo sociale non sarebbe facilmente accettabile ».

— QUALI SONO GLI ONERI E I BENEFICI DI QUESTA OPERAZIONE?

« In primo luogo, una maggiore cooperazione. L’unione monetaria dovrebbe consentire ai paesi membri di ottenere più facilmente l’equilibrio delle loro bilance dei pagamenti (se non altro mettendo in comune parte delle riserve e riducendo il fabbisogno stesso di riserve).

Il problema dell’equilibrio esterno però non verrebbe risolto, ma semplicemente trasformato in un più grave problema di sviluppo regionale, dato che la maggiore integrazione economica comporta solitamente una polarizzazione delle attività, soprattutto industriali. I paesi deboli e periferici come l’Italia e la Gran Bretagna non potrebbero che subire questi costi in misura maggiore, a vantaggio delle economie forti e centrali come la Germania.

In secondo luogo, la partecipazione ad una unione monetaria riduce gli strumenti di politica economica che un singolo paese può di fatto usare: i vincoli sul cambio costringono i più deboli a ricorrere o alla deflazione o al controllo dei salari, ogni qualvolta sorgano problemi di equilibrio interno.

« Questi limiti esistono già nella semplice anticipazione della unione monetaria: basti pensare alla rigida norma salariate del cinque per cento che il governo Callaghan cerca di imporre ai sindacati inglesi: o alla progressiva svalutazione della lira rispetto alla media delle valute (anche se nascosta dal suo apprezzamento rispetto al dollaro) per entrare da una posizione di forza nella progettata unione ».

— QUALI SONO LE FORME EFFETTIVE CHE QUESTA COLLABORAZIONE MONETARIA PUÒ PRENDERE?

« I governi francese e tedesco sono decisi a vincolare i tassi di cambio in maniera più stretta del “serpente” attuale. I tedeschi propongono una specie di “super serpente” in cui si pongono limiti alle parità bilaterali, ossia ai margini di fluttuazione di ogni moneta nei confronti di ognuna delle altre prese singolarmente.

Uno schema alternativo vede invece i margini di fluttuazione definiti rispetto ad un “paniere” di valute comunitarie (il cosiddetto European Currency Unit o ecu – convenientemente nominato lo “scudo”).

Il primo schema consente meno margine di manovra e impone l’onere dell’intervento valutario a tutti i paesi membri. Il secondo, di origine francese, ha una maggiore flessibilità potenziale e impone l’onere dell’intervento prevalentemente a quei paesi che si discostino dall’andamento valutario della media (ad esempio, questo secondo sistema imporrebbe alla Germania un maggiore intervento nel caso del rafforzamento del marco).

« Al di là del gergo e dei dettagli tecnici, c’è una reale differenza di vedute sia sulla intensità della collaborazione sia sulla distribuzione del peso degli interventi. Un compromesso, di origine belga, che accetta lo schema tedesco ma interpreta le variazioni relative dei cambi rispetto allo “scudo” come misura della responsabilità di intervento, non fa altro, in fondo, che combinare la sostanza della proposta tedesca con le apparenze dell’alternativa francese. In ogni caso, un Nuovo Fondo Monetario Europeo, a guisa del FMI, combinerebbe circa un quarto delle riserve dei paesi membri per stabilizzare i cambi ».

— COME CREDI CHE POSSA ESSERE AFFRONTATO IL PROBLEMA DELLE EVIDENTI DISPARITÀ ECONOMICHE TRA I VARI PARTECIPANTI?

« In sostanza possono essere usati due metodi. Il primo è quello dell’indennizzo dei paesi che — come l’Italia, la Gran Bretagna e l’Irlanda — sono i probabili perdenti nella ridistribuzione che non può non seguire il processo di unificazione monetaria.

L’indennizzo può prendere la forma di maggiori dotazioni per lo sviluppo regionale, o l’assunzione da parte della comunità dì aliquote del sussidio di disoccupazione dei paesi membri. o la rinegoziazione di altri aspetti della politica comunitaria come la politica agricola comune.

« L’ordine di grandezza delle somme che possono essere stanziate è inferiore, tuttavia, alla misura degli effetti redistributivi, senza contare che l’esperienza passata conferma che paesi come l’Italia e la Gran Bretagna hanno contribuito più dì quanto non abbiano ricevuto dal bilancio comunitario.

Il secondo metodo, senza dubbio preferibile, è la concessione ai paesi a valuta più debole di una maggiore flessibilità dei vincoli e dei tempi di realizzazione che tenga conto dei diversi tassi di disoccupazione e di sviluppo, soprattutto se lo schema di origine francese potesse venire adottato ».

— COME SI SPIEGA L’ATTEGGIAMENTO DEI VARI PAESI RISPETTO A QUESTI SCHEMI?

« I tedeschi chiaramente non hanno che da guadagnare da una unione che consacri il loro dominio economico, da una rigidità che li protegga dalla concorrenzialità che altri paesi europei altrimenti potrebbero ottenere mediante svalutazioni, e che non imponga — come lo schema francese — obblighi speciali di intervento ai paesi in surplus.

I francesi contano sul mantenimento della loro fragile ripresa e sui vantaggi politici (di compartecipazione alla leadership europea, anche in chiave anti americana, e per motivi puramente di prestigio), tante da essere, pronti ad abbandonare la loro proposta originaria e ad abbracciare quella tedesca.

I belgi, che hanno fatto le spese del “serpente” sino ad ora, sono chiaramente meno entusiasti. Gli inglesi ne avrebbero fatto volentieri a meno, ma visto che rischiano di trovarsi isolati, finiranno col partecipare ».

— QUALI POSSIBILITÀ DI RIUSCITA PUÒ AVERE IL PROGETTO DI UNIONE MONETARIA?

« Non c’è niente che scateni la speculazione quanto il mantenimento di tassi di cambio fissi che vengano considerati inappropriati. A meno che non ci siano misure di salvaguardia tali da svuotare la portata del progetto, prima o poi i tassi di cambio dei vari paesi membri dovranno riaggiustarsi a intervalli medio lunghi.

Se è così, i tassi di cambio dei vari paesi saranno — come ai tempi di Bretton Woods — prima sopravvalutati, poi sottovalutati nel caso di una pressione al rialzo precedente ad un aggiustamento, e viceversa nel caso di una pressione al ribasso; con tutti i problemi di distorsione commerciale e di equilibrio delle bilance che le seguano.

Se invece i cambi venissero effettivamente mantenuti, fino a diventare fissi come prevede una effettiva unione monetaria, l’Europa si convertirebbe di fatto in una zona del marco, con Paesi come l’Italia gravati dai problemi della disoccupazione e del sottosviluppo più di quanto non sarebbero altrimenti ».

— SE A BREVE E MEDIO PERIODO SI PUÒ PREVEDERE UN ACCENTUARSI DELLE POLITICHE DI CONTENIMENTO, QUALI SPERANZE SI POSSONO NUTRIRE CIRCA UN RILANCIO DELLA CRESCITA SU BASI DI MAGGIORE STABILITÀ MONETARIA?

« II ristagno europeo non è stato causato da fluttuazioni dei cambi: queste sono state sintomi, non cause.

Il ristagno è dovuto alle ripercussioni della crisi del petrolio — sia come ridistribuzione in termini reali verso i paesi produttori, sia come problemi di riciclaggio dei redditi petroliferi — e al carattere caotico e non coordinato del commercio internazionale; soprattutto alla mancanza di meccanismi che impongano a paesi in surplus — come la Germania e il Giappone — di espandere le loro economie. Una maggiore stabilità dei cambi europei — soprattutto se ottenuta secondo lo schema tedesco — fa poco o niente per affrontare queste cause.

Un maggiore sviluppo futuro potrà verificarsi non come risultato della cooperazione monetaria europea, di per se stessa, ma perché la crisi in corso, come del resto di solito tutte le crisi, col passare del tempo svolge una funzione rivitalizzante e crea le precondizioni del proprio superamento».

Antonio Bronda