Storia della produttività italiana: i dati ISTAT e AMECO

Quante volte abbiamo sentito dire in TV che il problema dell’Italia è la produttività? Moltissime volte, dal politico o dall’economista mainstream di turno.

Una narrazione molto superficiale come se, all’improvviso, un’ondata di prigrizia avesse colpito il Paese e gli italiani, di colpo, si sono trasformati da formiche a cicale.

Battute a parte, come stanno realmente le cose? Guardiamo alcune misure di produttività degli ultimi 40-50-60 anni per capire che cosa è successo.

PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO

Con la “produttività del lavoro” si intende il rapporto fra il valore aggiunto e le ore lavorate (vedi definizione ISTAT).

Per costruire la serie, prendiamo i dati da AMECO – il database della commissione europea – a partire dal primo anno disponibile per estrambi i dati, cioè il 1970.

Come potete vedere in trent’anni di “liretta” la produttività è più che raddoppiata, passando dai 16,3€ del 1970 ai 34,8€ del 2001. La variazione è quella reale, dal momento che i dati sono espressi ai prezzi del 2015.

Dall’introduzione dell’euro ad oggi, la produttività è cresciuta in maniera davvero esigua, passando dai 34,6€ del 2002 ai 35,5€ del 2019. L’intera serie storica riguarda tutte le attività economiche.

Per verificare il semplicissimo calcolo ecco i codici da inserire su AMECO: per il “valore aggiunto ai prezzi del 2015” inserire “OVGE“, mentre quello sul “totale ore lavorate” inserire “NLHT“.

Guardiamo ora il grafico del valore aggiunto per occupato, il codice ameco per avere il totale degli occupati è “NETD“.

In questo caso dentro l’euro non si è fatto alcun progresso, nel 2019 il valore aggiunto per occupato era rimasto ai livelli del 1996 in termini reali, cioè intorno i 61.000€ ai prezzi del 2015.

Tornando a parlare del valore aggiunto per ora lavorata, concludiamo l’argomento con un grafico pubblicato dall’ISTAT nel 2010, un po’ vecchiotto ma ancora interessante.

FONTE: ISTAT – Misure di produttività 1980-2009 (pag 2)

In questo caso si usa il “numero indice” con il 2000 preso come anno di riferimento. Nel primo anno disponibile – cioè il 1981 – l’indice era di poco inferiore a “70” punti mentre nel 2000 era pari a “100“.

Anche con questo grafico appare evidente che, prima della moneta unica, l’Italia non avesse particolari problemi di produttività, se non quando avevamo bloccato il cambio della lira, con l’ingresso nella banda stretta all’inizio del 1990 e il ritorno nello SME a fine 1996.

Vale la pena analizziare un altro indicatore, visto che è molto chiaccherato.

TOTAL FACTOR PRODUCTIVITY

In contrapposizione ai dati appena analizzati, esiste una tesi secondo cui il declino italiano sarebbe cominciato molto prima dell’euro, la prova è in un’indicatore chiamato “total factor productivity” (in italiano “produttività totale dei fattori”).

Ecco una delle tante discussioni su Twitter, dove il pacatissimo Boldrin cala il suo asso nella manica.

Che cosa dovrebbe misurare il TFP? In teoria i progressi riconducibili al progresso tecnologico. Secondo Boldrin, l’Italia da almeno 40 anni non investe in nuove tecnologie e questo fatto starebbe l’orgine degli attuali guai.

L’argomentazione di difesa, finora, è stata principalmente quella di puntare il dito sulla bassa affidabilità dell’indicatore facendo notare che si tratta di un semplice “scarto” per gli errori di misura.

Ovviamente tale obiezione non è stata certo accolta e quel grafico viene puntualmente riproposto. Il TFP è davvero la “pistola fumante” che mette in discussione i dati che abbiamo visto prima?

Prendiamo per buona l’affidabilità dell’indicatore, cioè che per davvero il TFP misura i benefici del progresso tecnologico.

Prima di ogni considerazione sui dati, qual è la fonte del grafico della discordia?

C’è scritto in basso “University of Groningen“: la prima osservazione è che NON si tratta di una fonte ufficiale (come invece lo sono AMECO e ISTAT) e quindi NON può essere preso per oro colato.

Per valutarne l’attendibilità, basta semplicemente fare un confronto fra il TFP dell’università olandese con quello calcolato dalle varie fonti ufficiali, per vedere se i dati corrispondono.

Tornando nel database AMECO, fra i numerosi indicatori disponibili c’è il total factor productiviy (codice ZVGDF), ecco la serie dal 1960 al 2019.

Come vedete è completamente diversa da quella dell’università di Groningen: quella di AMECO mostra alti e bassi ma nel complesso la produttività totale dei fattori (PTF) è passata dagli “89” punti del 1980 ai “106,5” del 2001.

Invece quella olandese rimane praticamente “piatta” (sotto il grafico con l’anno di riferimento spostato al 2015), nel 1980 era di 113,9 punti mentre nel 2001 di 113,5.

Vediamo ora quella dell’ISTAT, sempre da quel documento del 2010 che mostra l’andamento della produttività totale dei fattori dal 1981 al 2009.

FONTE: ISTAT – Misure di produttività 1980-2009 (pag 3)

Nel 1981 la produttività totale dei fattori era pari a “80” punti mentre nel 2000 era “100” (che coincide con l’anno di riferimento per questa serie), nemmeno qui nessuna stagnazione nei vent’anni prima dell’euro.

Sotto il grafico olandese con l’anno di riferimento spostato al 2000, dove il TFP – nello stesso arco temporale – oscilla fra 95 e 100.

Come vedete, anche cambiando l’anno di riferimento l’andamento dell’indicatore rimane sempre lo stesso. Il punto è che il dato olandese è completamente fuorviante rispetto ad ISTAT e AMECO, ergo non può certo considerarsi valido.

Alla fine della fiera non basta “guardare i dati”, bisogna anche verificare l’attendibilità della fonte. E tutto questo a prescindere se si reputa il TFP “la misura della nostra ignoranza” oppure il miglior indicatore macroeconomico esistente.

Sta di fatto che, con i dati corretti, anche il TFP è l’ennesimo indicatore che va “a farsi benedire” nella seconda metà degli anni 90 per poi definitivamente soccombere con l’eurone.

PASSATO, PRESENTE E FUTURO DELLA PRODUTTIVITÀ

Nel suo ultimo rapporto annuale, la Banca d’Italia ha dedicato un paragrafo a varie forme di produttività. Prendiamo la relazione sul 2019, dove a pagina 60 si trova la seguente tavola.

FONTE: Banca d’Italia – relazione annuale 2019 (pag 60)

Come vedete dal 1986 al 1995 la crescita media annua del PIL fu del 2,1% quella della produttività del lavoro del 2,0% e quella della PTF dell’1,3%.

La fonte dei dati è ovviamente l’ISTAT, nel caso qualcuno avesse ancora dei dubbi su chi fa i conti in questo Paese. Per quanto riguarda le proiezioni fino al 2032, a pagina 61 c’è il commento della tavola.

« Assumendo che le ore per addetto ritornino sui livelli del 2019 e che il tasso di disoccupazione scenda gradualmente su valori di poco inferiori al 9 per cento, nel decennio 2023-2032 il monte ore lavorate apporterebbe un contributo apprezzabile alla crescita del PIL italiano, nell’ordine di 0,7 punti percentuali in media all’anno (tavola).

In questo quadro, per riportare nel decennio considerato il tasso medio di espansione del PIL all’1,5 per cento registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria globale, la produttività del lavoro dovrebbe aumentare di circa lo 0,8 per cento all’anno tra il 2023 e il 2032. Tale risultato sarebbe conseguibile con un incremento medio annuo della produttività totale dei fattori (PTF) dello 0,7 per cento circa, unito a una ripresa dell’accumulazione che, innalzando l’intensità del capitale, riportasse il rapporto tra investimenti e PIL sui livelli del decennio 1996-2007 (attorno al 21 per cento nella media del periodo).

L’incremento della PTF prospettato si colloca in una posizione intermedia tra la dinamica molto positiva osservata in media negli anni 1986-1995 e quella, assai più modesta, dei dieci anni successivi (tavola). (…) »

Infine nelle conclusioni del governatore, sempre nella stessa pubblicazione, c’è anche un grafico che illustra PIL e produttività del lavoro proiettate fino al 2035.

FONTE: Banca d’Italia – considerazioni finali del governatore (pag 37)

Adesso non ci dovrebbe essere più alcun dubbio da quando la produttività è diventata un problema in Italia, o meglio la consenguenza di un “probl€ma“.