Il no del PCI al trattato di Roma (L’Unità 28 luglio 1957)

Trascrizione dell’articolo pubblicato su “L’Unità” di Domenica 28 luglio 1957 a pagina 8, si trova nell’archivio del sito appunto de “L’Unità” al seguente link

https://archivio.unita.news/assets/main/1957/07/28/page_008.pdf

I comunisti furono gli unici ad opporsi alla ratifica del Trattato di Roma, che fece nascere la Comunità Economica Europea (CEE) che all’epoca si chiamava MEC (mercato europeo comune).

Quindi è sbagliato pensare che l’antieuropeismo sia un qualcosa nato dalla “destra populista xenofoba”.

Dopo oltre 60 anni, le ragioni dei comunisti (quando la sinistra aveva sale in zucca) sono ancora di grande attualità, andiamo a leggere l’articolo integrale originale.


CHE COSA SIGNIFICA LA SIGLA M.E.C.

I Paesi aderenti al Mercato Comune sono oltre all’Italia, la Francia, la Germania Occidentale, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo. È interessante ricordare i dati di tali Paesi riguardanti la popolazione e il reddito complessivo: Italia (48.500.000 abitanti – reddito 11.359 miliardi); Francia (43.200.000 abitanti – reddito 24.185 miliardi); Germania Occidentale (51.000.000 abitanti – reddito 20.787 miliardi); Belgio (9.000.000 abitanti – reddito 5.058 miliardi); Olanda (10.800.000 abitanti – reddito 4.406 miliardi); Lussemburgo (300.000 abitanti – reddito 180 miliardi). Come si vede l’Italia è il paese con più basso reddito in rapporto alia popolazione, quella cioè destinata a rimanere in condizioni di inferiorità rispetto agli altri paesi aderenti al MEC. Né diversa è la situazione in rapporto alla media dei salari operai; fatto uguale a 100 il salario medio in Italia avremo infatti 152 il salario in Francia, 142 in Germania Occidentale, 156 nel Belgio e 112 in Olanda. Una disparità come si vede sensibilissima.

I VARI ORGANISMI PREVISTI DAL TRATTATO

IN QUESTI GIORNI il Parlamento discute la ratifica da parte dell’Italia del trattato per l’istituzione della «Comunità economica europea» più nota come Mercato Comune Europeo (MEC). È interessante vedere quali motivi politici ed economici hanno determinato il MEC, in che cosa esso consiste e quali prospettive apre per la nostra economia.

Al MEC hanno aderito Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, vale a dire le nazioni della cosiddetta «piccola Europa». Questi sei paesi, attraverso il trattato, si impegnano: a eliminare i dazi doganali e le altre restrizioni riguardanti la circolazione delle merci tra gli aderenti, stabilendo in pari tempo tariffe doganali comuni per gli scambi con i paesi estranei al MEC; a realizzare la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali nell’ambito dei sei paesi; al coordinamento e all’avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia economica; alla creazione di un «fondo sociale europeo» da utilizzare per indennizzare i lavoratori licenziati In seguito alia smobilitazione delle fabbriche che possono essere chiuse in conseguenza del MEC; e infine all’istituzione di una banca europea per effettuare investimenti nei singoli paesi aderenti. In seguito alle pressioni del governo francese è stato deciso di includere nel MEC anche i «territori d’oltremare», vale a dire le colonie, e In particolare quelle francesi. II trattato prevede anche l’istituzione di un fondo monetario comune per investimenti in questi territori.

II processo di unificazione dei mercati dovrebbe aver luogo per gradi attraverso tre tappe per complessivi 12 anni prorogabili a 15. La realizzazione sarà affidata a una serie di organismi internazionali, istituiti con il trattato, e cioè: un’assemblea di 56 membri, eletti nei rispettivi Parlamenti; un Consiglio di 6 membri a voto plurimo in rapporto con l’importanza dei vari paesi (Italia, Francia e Germania avranno infatti 4 voti, Belgio e Olanda 2 e Lussemburgo 1); una commissione per dirimere le eventuali divergenze. II trattato è congegnato in modo da escludere dall’assemblea i parlamentari dei partiti di sinistra.

Questo è il contenuto formale del MEC, che a prima vista potrebbe sembrare dettato da esigenze accettabili. In effetti però i motivi che hanno suggerito il MEC sono piuttosto complessi. Innanzi tutto bisogna tener conto della crisi della politica economica dei paesi che vi aderiscono. sviluppatasi nel secondo dopoguerra. Tale crisi e dovuta alia politica di divisione dell’Europa in due parti, la quale ha quasi completamente annullato i rapporti economici dei paesi dell’Europa occidentale con i mercati complementari dell’Est europeo. Altro fattore è il fallimento della politica colonialista per cui la lotta di liberazione dei popoli ha sottratto ai capitalisti dell’Europa occidentale le possibilità di sfruttamento coloniale di vasti territori. D’altra parte il restringersi del mercato capitalistico ha reso più pesante la pressione della economia americana, proprio nel momento in cui la avanzata del progresso tecnico richiede l’adozione di più moderni processi produttivi a prezzi più bassi.

In questa situazione l’elemento determinante del MEC è la necessità di rafforzare su un piano politico, oltre che economico, i grandi monopoli occidentali legati con quelli americani. Il MEC insomma è una manifestazione, sul terreno economico, della politica di divisione del mondo in blocchi, che sul piano militare si esprime con la NATO. Di fronte al fallimento dei tentativi di realizzare l’unità politica si è ripiegato sul tentativo di costituire un’unità economica. II promotore europeo del MEC, il ministro degli esteri belga Spaak, ha dichiarato con molta franchezza che il trattato è stato dettato dalla necessita di «non farsi risucchiare dal vuoto politico seguito al fallimento della CED». Dopo aver dato vita al MEC, Spaak è stato nominato segretario generale della NATO.

Ed ecco più in particolare gli aspetti principali del trattato che, per comodità, dividiamo in altrettanti punti.

LA SITUAZIONE DELLA MANODOPERA

IL TRATTATO NON GARANTISCE ai lavoratori di ogni singolo paese aderente una situazione nuova, di maggior occupazione, di migliori salari, di sicurezza del posto di lavoro; questa riguarda in modo particolare i lavoratori italiani. II confronto tra i guadagni orari degli operai dell’industria dei sei paesi, mostra infatti l’Italia all’ultimo posto. È noto al contrario che nel nostro paese c’è una disoccupazione permanente di circa due milioni di lavoratori che non ha riscontro in alcuno degli altri paesi del MEC. La parte del trattato relativa alla «libera circolazione di lavoratori» è una di quelle che maggiormente interessano il nostro paese, ma non è stata stabilita a questo proposito una disciplina precisa. La «libera circolazione», da attuarsi al termine del periodo di 10-15 anni, è affidata alle future decisioni degli organi del MEC.

Le speranze di una sensibile diminuzione della nostra disoccupazione in seguito alla liberalizzazione prevista dal trattato non possono essere convalidate in nessun modo. Inducono al pessimismo soprattutto i seguenti fatti: si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione degli orari di lavoro, sarà richiesta mano d’opera specializzata ed altamente qualificata mentre quella italiana disoccupata si caratterizza proprio per la sua bassa qualificazione (sotto questo aspetto l’economia italiana corre addirittura il rischio di vedersi privata della mano d’opera migliore attraverso l’emigrazione degli operai specializzati). Inoltre la mano d’opera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la mano d’opera — a bassissimo costo — dei paesi d’oltre mare.

LIBERALIZZAZIONE DEGLI SCAMBI

IL MEC PREVEDE che in un periodo variante tra i 12 e i 15 anni le tariffe doganali in vigore negli scambi tra i paesi aderenti verranno progressivamente ridotte fino alla loro totale eliminazione. Lo schema programmatico di riduzione delle tariffe è quanto mai preciso e dettagliato e costituisce il punto centrale delle disposizioni del trattato. La stessa cosa si può dire per ciò che riguarda i contingenti cui sono ancora sottoposti gli scambi di merci tra i paesi della «comunità europea». L’eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti: se si esamina la struttura industriale e In potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell’Italia è in generale la più debole di tutte quante, tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti, proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera (la media dei dazi doganali sul prodotti della media industria meccanica, che in Italia è superiore al 20 per cento del valore dei manufatti, in Germania scende a circa l’otto per cento).

A questo punto potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al MEC. II fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi monopoli industriali che all’interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La Fiat ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un’efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo. Essa inoltre, attraverso il MEC potrà partecipare in posizione solida alla creazione di una forte industria aereonautica europea, oggi praticamente inesistente, e alia spartizione di commesse belliche in questo settore. II coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori, sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli. Inoltre la riduzione dei dazi avverrà con gradualità e criteri che favoriscano gli interessi dei grandi monopoli. promotori del MEC, ai danni delle Industrie non monopolistiche.

LA LIBERTÀ DEI MONOPOLISTI

LA «LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI»  significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all’altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che, attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo luogo è possibile che si realizzi, da parte dei monopoli italiani, una fuga di capitali dall’Italia. Queste eventualità non sono corrette, ma al contrario accentuate dalla istituzione della cosiddetta Banca europea di investimenti. È stabilito infatti nel trattato che questo organismo finanziario funzioni come una comune banca la quale effettua investimenti non dove questi sono richiesti dalle esigenze di ogni singolo paese, ma bensì dove essi offrono più elevati profitti ai monopoli. Quali effetti ciò può avere per le possibilità di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia è facilmente arguibile. «Le disposizioni del mercato comune — è scritto nella relazione annuale delle ECE — sembrano imporre dei limiti alia serie di misure che l’Italia può prendere per incoraggiare lo sviluppo industriale del Mezzogiorno. Vi sono certamente ben poche ragioni per presumere che la liberazione progressiva dei movimenti di capitali all’interno del Mercato comune susciti un afflusso di danaro verso le regioni sottosviluppate. A dire il vero, non si può escludere la possibilità di vedere i capitali seguire un corso inverso e passare, cioè, dai paesi poveri verso quelli più ricchi».

UN PERICOLO PER L’AGRICOLTURA

IL TRATTATO RISERVA una parte importante di coordinamento della produzione agricola nei sei paesi partecipanti. Al contrario che per l’industria però, gli scambi dei prodotti agricoli dovrebbero essere rigidamente controllati da minuziose norme. È prevista infatti, la costituzione di consorzi di produttori dei sei paesi per i vari rami della produzione agricola, cereali, latticini, vino, ortofrutticoli, ecc. ai quali verrebbe assicurata la direzione della politica agraria in ogni settore. Anche in questo caso la distribuzione delle varie colture verrebbe decisa non in base a criteri nazionali, ma in base alle posizioni di forza che avranno nei consorzi i produttori dei diversi paesi. Ad esempio, un consorzio del genere nel settore vinicolo orienterà la produzione secondo gli interessi dei francesi che oggi con l’Algeria sono i maggiori produttori europei. Occorre anche tenere presente che la direzione cadrà inevitabilmente in mano ai grandi proprietari fondiari, i quali all’interno dei diversi paesi tenteranno di battere la concorrenza estera a spese dei lavoratori. Le richieste della Confederazione degli agricoltori per l’abolizione dell’imponibile di mano d’opera e dei contributi unificati sono un primo significativo esempio di tali conseguenze.

IL MEC E LE COLONIE

LA ASSOCIAZIONE NEL MEC, voluta dalla Francia, dei suoi territori d’oltre mare è non solo una convalida e un vincolo politico da parte degli altri cinque paesi circa la screditata e assurda azione coloniale francese in Africa ma diventa anche un mezzo per puntellare quella costosa operazione imperialista con fondi attinti alle economie di ciascun paese: e infatti previsto, tra le altre cose, un fondo speciale di investimenti nei territori d’oltre mare. Sul piano economico l’inclusione significa che i prodotti delle colonie entreranno in concorrenza con quelli europei (e questo, in particolare, per l’agricoltura con la produzione italiana: per la mano d’opera con la mano d’opera italiana).


Fine trascrizione, come vedete se al posto di MEC ci fosse stato scritto UE, l’articolo potrebbe benissimo essere scritto ai nostri giorni.