D’Alema su Maastricht: “distorsione in senso neoliberista dell’Europa” (29 ottobre 1992)

In questa puntata dedicata ai discorsi sul trattato di Maastricht, quello che andremo a vedere oggi è già stato parzialmente inserito, in un precedente articolo dal titolo “Le confessioni dei padri dell’euro“.

Il protagonista di oggi è Massimo D’Alema che sapeva perfettamente – già nel 92 – a quali nefaste conseguenze l’Italia sarebbe andata incontro nella nascente Unione Europea.

Il discorso di D’alema lo potete trovare nella seduta del 29 ottobre 1992, consultabile su questo link a pag 5353, oppure sull’archivio di Radio Radicale.

Buona lettura e/o ascolto


FONTE: Camera dei Deputati – Archivio XI legislatura

Signor Presidente, onorevoli colleghi, il Parlamento giunge alla ratifica del trattato di Maastricht in un momento delicato e difficile nel processo di unità europea. Misuriamo in modo drammatico l’inadeguatezza di un’idea dell’Europa fondata sulla preminenza delle istituzioni monetarie e sulla illusione che l’integrazione economica possa affidarsi ai puri e semplici meccanismi del mercato.

In realtà, di fronte allo sconvolgimento dell’Europa e del mondo, segnato dal crollo dei regimi del socialismo reale e dalla fine della guerra fredda, e di fronte all’insorgere di un complesso di problemi e di contraddizioni in campo economico e sociale e al riemergere di nazionalismi e di conflitti anche nel cuore dell’Europa, viene in evidenza l’inadeguatezza di un processo di unità fortemente condizionato in questi ultimi anni dal prevalere delle posizioni neoliberiste e monetariste.

Noi siamo convinti che è l’inadeguatezza di questa concezione dell’unità europea che fa riemergere resistenze di diverso segno rispetto al processo di integrazione, anche in un paese come il nostro nel quale il movimento e l’orientamento europeisti hanno avuto un carattere assai largo ed unitario. Questo ci preoccupa e siamo convinti che tale fatto sia anche l’effetto della profonda crisi economica e sociale che caratterizza oggi il nostro paese, dello stato di impreparazione dell’Italia alla sfida dell’integrazione europea, del venire al pettine di nodi e contraddizioni irrisolte.

Questo mette in evidenza la responsabilità delle classi dirigenti e dei governi; responsabilità che abbiamo denunciato nel corso del dibattito quando, negli interventi degli onorevoli Salvadori e Petruccioli, abbiamo ricordato come la presenza italiana nella fase di elaborazione e all’atto della firma del trattato sia stata improntata a quello stesso superficiale, truffaldino ottimismo sulle prospettive economiche del nostro paese che ha, d’altro canto, caratterizzato l’azione interna dei governi italiani.

Ora, è evidente che, anche rispetto al momento in cui la ratifica del trattato è avvenuta da parte del Parlamento europeo e poi del Senato della Repubblica, sono intervenuti fatti nuovi di grande rilevanza, che hanno messo in evidenza questa fragilità dell’Italia: primo fra tutti la svalutazione della lira e la crisi dello SME. Fatti che incidono sulla valutazione del percorso di unità europea, che mettono in luce la rigidità di parti del trattato e la scarsa attendibilità delle previsioni in materia di tempi e modi dell’integrazione.

Non ritengo tuttavia giusto né saggio imputare al trattato di Maastricht le scelte di politica economica del Governo italiano, come se esse discendessero in modo quasi automatico dagli impegni italiani per l’integrazione europea.

Innanzi tutto, che l’esigenza di risanamento finanziario era ed è un’esigenza nazionale imprescindibile per una politica di sviluppo e di equità, con o senza trattato di Maastricht. In secondo luogo, che la qualità del risanamento e le scelte concrete in materia di salari, pensioni, equità fiscale, Stato sociale, non sono implicite in alcun trattato internazionale, ma discendono dalla volontà politica del Governo dalla volontà di cui Governo e maggioranza portano intera la responsabilità.

Anche se è evidente che l’idea secondo cui l’unificazione monetaria e la libera circolazione dei capitali senza una integrazione delle politiche di sviluppo, di bilancio, dei diritti sociali, appare profondamente discutibile, in crisi, sbagliata, non è solo un limite, ma è una distorsione in senso neoliberista del processo di unità europea.

Queste sono le ragioni per cui alla discussione abbiamo portato un contributo critico, per nulla appiattito nel coro di un europeismo retorico e di maniera, non solo partecipando alla stesura di un ordine del giorno unitario — che, sia pure nei termini di un concerto tra le forze democratiche e quindi per noi non interamente soddisfacente, tuttavia (lo vogliamo sottolineare) indica un impegno concreto per il Governo italiano nell’applicazione del trattato per superare limiti e distorsioni —, ma qualificando anche il nostro impegno nella discussione e nella presentazione di ordini del giorno intorno a tre questioni che consideriamo decisive.

La prima è l’opzione democratica, per colmare un vuoto di controllo e di potere democratico europeo; questione che appare essenziale proprio in una prospettiva di sviluppo e di equità. La seconda è l’opzione sociale, per mettere al centro di un processo di unità europea la tutela e l’espansione dei diritti sociali comuni, parte essenziale di una nuova cittadinanza europea. Vi è, infine, l’opzione pacifista.

Il richiamo al vincolo dell’articolo 11 della Costituzione, ai princìpi ed alle procedure della Carta delle Nazioni Unite non aveva e non ha per noi il senso di una riserva nazionalistica, ma vuole caratterizzare in questo modo il segno di una presenza italiana in Europa; il segno della presenza di un grande paese che nella sua Carta costituzionale ripudia la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali.

Così abbiamo cercato di caratterizzare la nostra presenza, il nostro impegno e il nostro apporto critico. La scelta di un voto favorevole, alla quale giungiamo, è dunque una scelta sofferta e non scontata. Noi sentiamo vivissima la preoccupazione di una Europa dominata da interessi forti, scarsamente democratica, divisa tra aree ricche e trainanti e aree meno sviluppate e subalterne, ma ci persuade l’idea che una mancata ratifica del trattato di Maastricht, in realtà, non metterebbe per nulla a riparo da questi rischi e significherebbe la sanzione di una sconfitta.

Sappiamo che la battaglia per un’Europa democratica dei cittadini e dei lavoratori è una battaglia non facile, il cui esito dipenderà in gran parte dalla forza e dall’unità di una nuova sinistra europea, ma di una nuova sinistra europea che stia nel processo di unità e che guardi oltre Maastricht.

Chiamarsi fuori, confondersi con il fiorire di resistenze nazionalistiche e corporative, significa perdere senza combattere. È con questo spirito che, continuando una tradizione ed un’ispirazione che fu già del partito comunista italiano, il partito democratico della sinistra voterà per la ratifica del trattato di Maastricht. (Applausi dei deputati del gruppo del PDS).